Alzo gli occhi dal libro e guardo la signora davanti a me. È l’unica che non sta nervosamente scrivendo al computer, mandando mail a tutto l’universo o risolvendo una questione di importanza mondiale. ll tipo seduto di fianco al finestrino è addirittura in call per esporre chissà quale report al suo team e ha pure pregato di lasciarlo in pace. Lei invece ha chiesto al figlio di non chiamarla perchè non vuole disturbare gli altri con le sue conversazioni.
Se chiudessi gli occhi ora, riuscirei a rivedermi nel polveroso pomeriggio di giugno, in mezzo al nulla delle colline toscane, con la gamba sanguinante dal ginocchio in giù e i miei jeans preferiti squarciati dall’impatto con lo sterrato. Quando il dolore è sopra tutto, pensi allo zero cosmico. Cosi lontano dalla pioggia di una sera a Torino e dalla discesa verso Livigno, in una notte di nebbia con le nevi perenni attorno. Lontano. La felicità e la tristezza divisi da spazi siderali.
Tornando a quel pomeriggio, c’è una cosa che non riesco a togliermi dalla testa. Come è stato possibile che, proprio in quel momento, da quella stradina passasse un uomo grande e grosso sulla sua Jeep Renegade verde Inghilterra? Ecco, quella specie di strano angelo mandato dal cielo si avvicina e mi versa sulla gamba il contenuto di un’intera bottiglia di plastica, dicendo con foga:
“Acqua benedetta, acqua benedetta”
Di dove venisse quell’acqua non lo so ma so che alla fine quel bislacco messaggero del santo mi ha persino traghettato fuori dallo sterrato per tre chilometri, avendo cura di andare piano per evitare le voragini.
Non mi ricordo né la sua voce, né la sua faccia ma soltanto il sollievo dell’acqua che scrosciava sul mio ginocchio e poi lungo tutta la gamba, lavando via i sassolini dagli squarci aperti nella carne viva. Nemmeno lo riconoscerei tra la folla, eppure per quell’istante, lui era lì per me.
Non è così anche nel ciclismo? Cose intense succedono tra persone che non condividono neanche un momento della loro quotidianità. Qualcosa che lega indissolubilmente sulla strada, la salvezza ad ogni sguardo, il sollievo in ogni precipizio. Acqua benedetta come lacrime salate che lavano via le ferite aperte.
Dentro, ci batte il cuore.
Torno al presente. La signora del treno è arrivata alla sua fermata, si alza e augura buon viaggio agli altri che nemmeno le rispondono. Le sorrido, sicuramente non la rivedrò più e nemmeno la riconoscerò ancora tra la folla, non ricorderò il tono della sua voce. Ma quel momento sì. La verità è questa: la gentilezza è immortale, dura per sempre.
Di nuovo dobbiamo essere grati agli strambi angeli là fuori che – seppure per pochi istanti – hanno incrociato il nostro furioso cammino per darci l’acqua benedetta e sentire meno male.
Alla prossima volta. Forse un giorno avremo l’occasione di ricambiare il favore.